• L’impatto con l’asteroide, non i vulcani, fu il killer dei dinosauri

    Nuove simulazioni sugli effetti climatici ed ecologici delle catastrofi avvenute 66 milioni di anni famostrano come l’impatto di Chicxulub abbia reso il mondo di fine Cretacico inadatto per la vita dei dinosauri.

    L’asteroide che colpì la Terra al largo delle coste del Messico alla fine del Cretacico, 66 milioni di anni fa, è stato a lungo ritenuto la causa della morte di tutte le specie di dinosauri, ad eccezione degli uccelli.
    Tuttavia, un’ipotesi alternativa, considera le grandi eruzioni vulcaniche dai Trappi del Deccan, attivi tra la fine del Cretacico e l’inizio del Paleogene, come i veri agenti dietro gli sconvolgimenti climatici che hanno causato l’estinzione di quasi il 75% della vita sulla Terra.

    Ora, un gruppo di ricerca dell’Imperial College di Londra, dell’Università di Bristol e dell’University College di Londra, ha dimostrato che solo l’impatto dell’asteroide avrebbe potuto creare condizioni sfavorevoli alla sopravvivenza dei dinosauri in tutto il mondo.
    I ricercatori mostrano inoltre come la massiccia attività vulcanica di quel periodo potrebbe essere stata invece determinante nella ripresa dello sviluppo della vita a seguito dello “shock” causato dall’asteroide. I loro risultati sono stati pubblicati oggi sulla rivista scientifica internazionale PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences).

    La ricerca è stata condotta dal Dr Alessandro Chiarenza, che ha portato avanti questo studio durante il suo dottorato di ricerca presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Imperial College di Londra: «In questo studio, mostriamo come l’impatto dell’asteroide ha causato un lungo inverno durato alcuni decenni, i cui effetti hanno decimato gli ambienti ottimali per l’ecologia dei dinosauri. Al contrario, gli effetti delle intense eruzioni vulcaniche, non hanno influenzato le nicchie ecologiche di questi animali abbastanza da causarne l’estinzione.
    Le nostre analisi confermano, per la prima volta in maniera quantitativa, che l’unica spiegazione plausibile per giustificare l’estinzione di massa al limite K/Pg è proprio l’impatto dell’asteroide, che con il drastico calo delle temperature ha spazzato via gli habitat dei dinosauri in tutto il mondo».

    L’asteroide, colpendo la piattaforma carbonatica dello Yucatán, con il conseguente rilascio di grandi quantità di particelle e gas nell’atmosfera, ha bloccato la radiazione solare e causato così condizioni di inverno permanente.
    Anche le eruzioni vulcaniche dei Trappi del Deccan, nell’attuale India, produssero notevoli quantità di polveri e gas, ma con effetti su scale diverse rispetto all’impatto extraterrestre. Diversi studi hanno dimostrato come le emissioni di gas serra da queste province magmatiche abbiano probabilemente causato diversi episodi di riscaldamento globale, prima, durante e dopo l’estinzione di massa.

    Per determinare quale fattore fosse responsabile della moria di fine Cretacico tra asteroide e vulcanismo, i ricercatori hanno combinato i classici marcatori geologici del clima del passato con ‘Big Data’ sui ritrovamenti fossili, potenti modelli matematici e l’intelligenza artificiale. In questo nuovo studio, il team ha utilizzato questi metodi per identificare quali tipi di fattori ambientali, come la pioggia e la temperatura, servissero a ogni specie di dinosauro per prosperare.
    I ricercatori sono stati quindi in grado di mappare i luoghi in cui queste condizioni idonee avrebbero continuato ad esistere anche dopo l’impatto dell’asteroide o il vulcanismo massiccio. Hanno così scoperto che il solo impatto dell’asteroide era in grado di spazzare via tutti i potenziali habitat dei dinosauri, mentre il vulcanismo, senza altri fattori a concorrere, consentiva la vivibilità in alcune regioni del pianeta.

    Il paleoclimatologo Dr Alex Farnsworth, dell’Università di Bristol e co-autore della ricerca, ha dichiarato: «Invece di utilizzare il solo record geologico per ricostruire gli effetti sul clima che l’asteroide o il vulcanismo potrebbero aver causato in tutto il mondo, abbiamo aggiunto una dimensione ecologica all’indagine, rivelando come queste fluttuazioni climatiche abbiano influenzato gravemente gli ecosistemi a dinosauri».

    Il Dr Philip Mannion, dell’University College di Londra e altro co-autore dello studio, ha aggiunto: «Abbiamo aggiunto un approccio modellistico ai dati geologici, climatici e paleontologici, mostrando quantitativamente l’effetto devastante dell’impatto dell’asteroide sugli habitat globali. In sostanza, le simulazioni mostrano come solo l’asteroide di Chicxulub produca una sorta di schermata blu della morte per i dinosauri».

    Nonostante i vulcani rilascino gas e particelle che bloccano la radiazione solare, i dati sulle eruzioni del Deccan mostrano come questi abbiano anche rilasciato grandissime quantità di anidride carbonica e altri gas serra. Questi inquinanti atmosferici portano, con il loro accumulo, al surriscaldamento del pianeta.
    Dopo un “inverno globale” inizialmente drastico, causato dall’asteroide, il modello così ricostruito suggerisce che, nel lungo termine, il riscaldamento vulcanico avrebbe potuto aiutare a ripristinare molti habitat, aiutando così la nuova vita che, dopo il disastro, si è evoluta per prosperare.

    Il Dr Chiarenza ha dichiarato: «Forniamo nuove prove per sostenere che le eruzioni vulcaniche, verificatesi in un momento contemporaneo alla caduta dell’asteroide, potrebbero aver attutito gli effetti drammatici che l’impatto dell’asteroide ha causato sull’ambiente. Il vulcanismo di fine Cretacico e inizio Paleogene potrebbe aver accelerato l’innalzamento delle temperature, mitigando così il grande inverno.
    Questa complessa dinamica potrebbe aver determinato la sopravvivenza di molte forme di vita da questa terribile estinzione di massa, permettendo a piante e animali che hanno superato l’estinzione di proliferare nelle forme odierne».

    I “Permian Hunters” viaggiano fino al Triassico

    Dall’inizio della sua attività, APPI sostiene e finanzia un’importante progetto di ricerca, “Permian Hunters”, una campagna di scavo paleontologico nei depositi Permiani della Sardegna Nord-Occidentale.

    Il sito paleontologico di Torre del Porticciolo (Alghero), che è ben conosciuto a livello sia nazionale che internazionale per il ritrovamento sensazionale dei primi resti degli antenati dei mammiferi (sinapsidi basali) in tutta Italia, ora ha un’importante novità…ma prima raccontiamo quello che è successo negli anni scorsi!

    Nel 2016, durante una ricognizione geologica nell’area, è stato scoperto un secondo livello fossilifero molto promettente, distante circa 100 m dal sito di Alierasaurus.
    Analisi preliminari hanno messo in luce la presenza di un grande sinapside basale carnivoro riferibile alla Famiglia Sphenacodontidae, il gruppo che contiene il famoso predatore Dimetrodon, caratterizzato da un’ampia e iconica vela sul dorso. La scoperta rappresenterebbe il primo sinapside basale carnivoro dal Permiano dell’Italia, e uno dei pochi conosciuti e studiati in tutto il continente europeo.
    Ancora più recentemente, nell’estate 2017, sono state scoperte le prime impronte fossili attribuibili a vertebrati del Permiano della Sardegna. Il materiale, scoperto nella zona di Cala Viola -poco distante dall’area di Torre del Porticciolo, ed è rappresentato sia da impronte su lastre di arenaria isolate, che ancora in posto nell’affioramento originale.

    Considerando questi elementi nel complesso, la zona di Torre del Porticciolo si è rivelata tra le più importanti non solo in Italia ma in tutto il continente europeo, per la presenza di antenati di mammiferi con dieta sia erbivora che carnivora. Inoltre rappresenta solo il secondo sito in tutta Europa dove sono stati ritrovati, negli stessi livelli stratigrafici, sia la impronte che i resti ossei degli animali che le hanno impresse.

    Ed arriviamo al Triassico…cioè ad oggi!
    Il nuovo recente studio, pubblicato qualche settimana fa sull’Italian Journal of Gosciences – riporta testimonianza delle prime tracce di tetrapodi del Triassico della regione della Nurra.
    I reperti icnologici sono stati trovati su blocchi di arenaria utilizzati per costruire una recinzione che limita un campeggio stagionale, nella zona costiera a nord del promontorio di Capo Caccia. Le caratteristiche litologiche e petrografiche consentono di collocare i blocchi alla porzione medio-alta dell’Arenaria di Cala Viola (Buntsandstein). Le impronte rilevate all’inteno dell’arenaria sono state riconosciute come appartenenti a Rhynchosauroides e al Rotodactylus, due comuni ichnotaxa di rettili appartenenti a faune del Triassico medio-superiode (247-201 milioni di anni fa) dell’Europa e degli Stati Uniti.

    Ad ogni campagna di scavo, non finiamo mai di stupirci cercando e scoprendo le tracce di un ricco passato, di cui questa regione ne è geloso custode, come una torre a guardia di un “porticciolo”.


    Pericolo acciughe – Divieto di balneazione!

    L’estinzione di fine Cretaceo è stata l’occasione per i gruppi di animali sopravvissuti di invadere nuove nicchie ecologiche. Molti gruppi di pesci “moderni” compaiono per la prima volta nei reperti fossili all’inizio del Paleogene (66-40 Ma) ma con un aspetto decisamente diverso da quello a cui siamo abituati oggi. 

    Un gruppo, i cui rappresentanti moderni sono in genere planctovori e di piccola taglia, come le acciughe, si mostrano in questo periodo con un aspetto decisamente diverso e più aggressivo rispetto a quello cui siamo abituati ad immaginarli.

    Nel recente studio, pubblicato poche settimane fa su “Royal Society Open Science” dal ricercatore italiano Alessio Capobianco (Università del Michigan) i due reperti eocenici esaminati (strettamente imparentati con le acciughe moderne) , provenienti dal Belgio e dal Pakistan, presentano evidenti caratteristiche predatorie, come grandi dimensioni e dentatura caniniforme. Ma la caratteristica più singolare è certamente la presenza di un unico e massiccio “dente a sciabola” nella mascella superiore.

    Questa scoperta evidenzia uno straordinario armamento evolutivo dopo l’estinzione del Cretaceo, con acciughe dai denti a sciabola — e altri “esperimenti falliti” senza analoghi esistenti — che vivono insieme a gruppi di pesci familiari che abitano gli oceani di oggi.

    I fossili “dell’acciuga dai denti a sciabola” rivelano quanto diversi i nostri condimenti per pizza sarebbero potuti apparire con alcuni colpi di scena evolutivi. 

    Artwork Joschua Knüppe

    Le lunghe zampe dei teropodi? Non sempre servivano a correre

    Per ogni predatore che si rispetti, la capacità di poter correre velocemente è fondamentale nella caccia, spesso anche per evitare un cambio di ruolo e trasformarsi così in preda.
    L’impatto delle caratteristiche morfologiche di alcuni dinosauri teropodi nell’abilità del correre e l’effetto limitante di un corpo di notevoli dimensioni, sono stati fino a questo momento aspetti generalmente trascurati ma che potrebbero aver avuto invece importanti influenze dal punto di vista paleoecologico.
    Un nuovo studio pubblicato qualche giorno fa sulla rivista PLOS ONE (A. Dececchi, A. Mloszewska, T. Holtz jr., M. Habib, H. Larsson ), suggerisce infatti che tra i grandi dinosauri teropodi, i lunghi arti posteriori si sarebbero evoluti non per la velocità, come per i teropodi di piccola e media taglia, ma piuttosto per consentire a questi animali di conservare energia e poter così spaziare maggiormente alla ricerca di cibo. In pratica, se vale la regola generale che in un animale, ad esempio, avere le zampe lunghe serve per poter correre più velocemente, questa ricerca dimostra che per i teropodi di grandi dimensioni, più che per la velocità, le stesse caratteristiche servivano più plausibilmente per rendere gli animali maggiormente resistenti ed efficienti.
    Lo studio prende in esame le proporzioni e valuta la velocità massima di oltre 70 specie di teropodi (tra quelli che potevano avere un peso inferiore al chilogrammo fino ai colossi di 8-9 tonnellate) esaminandone proporzioni degli arti, rapporto dimensionale, massa corporea e andature. I grandi teropodi, non erano più veloci dei loro “fratelli” con le gambe più corte, semplicemente erano più efficienti. Calcolando la quantità di energia consumata da ciascun dinosauro mentre si muoveva a velocità di camminata, i ricercatori hanno scoperto che tra i grandi teropodi, quelli con le gambe più lunghe avevano bisogno di meno energia per spostarsi.
    Per saperne di più: PLOS ONE 

    A Trick of the Tail

    Ritrovata nel Sahara la coda fossile dello spinosauro. Aveva una grande pinna adatta al nuoto. 
    Anche A.P.P.I. ha dato il suo contributo alla scoperta.

    I resti fossili di una coda quasi completa di Spinosaurus sono stati scoperti per la prima volta nel Sahara marocchino da un team internazionale di scienziati, tra cui numerosi italiani. Fatto del tutto insolito per un dinosauro, le lunghissime spine neurali delle vertebre davano alla coda l’aspetto di un nastro, una sorta di grande pinna molto flessibile ai lati, capace di produrre una forte spinta in acqua. L’idea che lo spinosauro fosse prevalentemente acquatico non è nuova, ma gli studi precedenti non erano stati in grado di dimostrare come si muovesse: ora sappiamo che grazie alla sua coda poteva inseguire attivamente le prede, molto abbondanti nei grandi fiumi di 100 milioni di anni fa. Questo fatto è importante anche in termini evolutivi, perché conferma che i dinosauri, animali prevalentemente di terraferma, oltre ad aver conquistato i cieli con il sottogruppo degli uccelli, si erano spinti anche in acqua, con il sottogruppo degli spinosauri. 

    Inoltre, le nuove ossa si aggiungono a quelle già recuperate dal team di studiosi negli anni precedenti, provenienti dallo stesso scavo e appartenenti al medesimo individuo, rendendolo il più completo esemplare di Spinosaurus di sempre (molto più del primo descritto il cui scheletro andò perduto nella seconda guerra mondiale) nonché il dinosauro predatore meglio conosciuto del Cretacico di tutta l’Africa.

    Anche APPI ha dato il suo contributo alla scoperta: il paleontologo Simone Maganuco e il paleoartista Davide Bonadonna sono tra gli autori dell’articolo, pubblicato oggi sulla prestigiosa rivista scientifica Nature, mentre Fabio Manucci ha dato il suo contributo per la parte iconografica.

    QUI puoi leggere l’articolo di Nature.

    QUI puoi scaricare la cartella stampa completa con testi, immagini e video.

    Immagine; Ricostruzione di Spinosaurus in vivo. Artwork: Davide Bonadonna

    News of the (crocodylomorphs) world

    Consentite una piccolissima citazione dei Queen (News of the World – 1977), visto che le ultime novità dal “mondo” dei crocodilomorfi arrivano proprio dal Regno Unito.

    Un team di scienziati del National Museum Scotland, dell’ The University of Edinburgh e del Natural History Museum, London, con a capo il paleontologo italiano Davide Foffa, ha riportato l’attenzione su una specie di teleosauroidi ancora poco conosciuta e studiata: Teleosaurus megarhinus (Hulke 1871).
    I teleosauroidi erano un gruppo molto diffuso di crocodilomorfi semi-acquatici che popolavano le faune costiere-marine e lagunari durante il Giurassico e Cretaceo inferiore.
    Nei depositi Tardo-Giurassici di acque profonde, si registra però un’immediata diminuzione di questo gruppo sia in termini di diversità delle specie che nella loro abbondanza.

    Pochi esemplari teleosauroidi sono presenti all’interno dei sedimenti di acque profonde della famosa Kimmeridge Clay Formation, una è ‘Teleosaurus’ megarhinus Hulke, 1871, specie poco studiata, dalla forma longilinea e con un muso molto affusolato (per avere un’idea, ricorda in parte l’aspetto degli attuali Gaviali). Tra le difficoltà maggiori nello studio, è che l’olotipo di questa specie è costituito da pochi elementi, solo un muso incompleto dell’animale, proveniente dalla zona di Kimmeridge, in Inghilterra. L’unico altro campione cui storicamente si faceva riferimento per la classificazione, è un cranio quasi completo proveniente da una zona leggermente più vecchia (a Quercy, in Francia) e correlabile con la Kimmeridge Clay Formation. La mancanza di dati sufficienti per una classificazione chiara, ha fatto si che la validità di questa specie fosse messa in discussione.
    Lo scopo del lavoro pubblicato sulla rivista PeerJ (https://peerj.com/articles/6646/) –
    che oltre all’italiano Davide Foffa vede il contributo di Michela Johnson, Mark Young, Lorna Steel e Steve Brusatte – è proprio quello di far luce su questo gruppo di animali ancora troppo poco conosciuto.I ricercatori hanno messo a confronto i fossili provenienti da tre diversi campioni: oltre all’olotipo della Kimmeridge Clay Formation, sono stati esaminati i fossili provenienti dal sito francese di Quercy e nuovi campioni provenienti dalla stessa località dell’olotipo, rappresentato da un rostro anteriore con tre osteodermi e la corona di un dente isolato, ma associato ai pezzi precedenti. Dalle osservazioni e dalle analisi filogenetiche effettuate, i ricercatori hanno concluso che tutti gli esemplari sono riferibili a quello che storicamente veniva chiamato ’Teleosaurus’ megarhinus e che la specie è quindi davvero un taxon valido. Ma vista la particolarità di adattamento della specie e le sue caratteristiche che lo distinguono in maniera sostanziale dal gruppo generico dei teleosauridi crocodilomorfi, i ricercatori hanno istituito un nuovo e più specifico genere: Bathysuchus, ad indicare che si tratta appunto di un genere di coccodrillo adattato a vivere in acque profonde.
    Nell’ analisi filogenetica, il “nuovo” Bathysuchus megarhinus si trova molto vicino al taxon di Aeolodon priscus (in precedenza considerato più genericamente come Steneosaurus): in particolare Bathysuchus ha un’estrema riduzione dell’ornamentazione dermo-cranica e una riduzione nello spessore e nella dimensione degli osteodermi.

    Queste caratteristiche morfologiche si ritrovano anche in Aeolodon, i cui reperti sono rappresentati da uno scheletro post-cranico ben conservato e in cui è possibile notare ulteriori caratteristiche che indicherebbero uno stile di vita diverso dagli altri teleosauroidi conoscuti. Oltre alle ornamentazioni poco appariscenti e osteodermi similarmente ridotti, gli scienziati hanno notato che le proporzioni degli arti di Aeolodon (i cui arti anteriori sono molto ridotti) sono simili a quelle dei metriorhynchidi. Questi crocodilomorfi, privi di osteodermi e lontani cugini dei teleosauroidi, erano completamente adatatti ad uno stile di vita in mare aperto. Sulla base di queste similitudini (convergenze evolutive), dalle caratteristiche nell’aspetto degli esemplari descritti e dai sedimenti marini profondi che li hanno preservati, i ricercatori ipotizzano che Bathysuchus+ Aeolodon sia il primo clade di teleosauroidi conosciuto che si è ben adattato a vivere in acque profonde, lontano dalla terraferma.

    Copertina: Steneosaurus_ N. Tamura licensed under Creative Commons Attribution- ShareAlike (CC BY-SA)

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    Jurassic Europe: il primo “dinosauro titano”

    Nel 1934, in un remoto villaggio della Francia orientale, vennero rinvenute le ossa fossili di un dinosauro sconosciuto alla scienza. I resti di questo animale vennero brevemente studiati e conservati al Museo di Storia Naturale di Parigi, venendo menzionati da alcuni scienziati fra gli anni ’30 e ’40, per poi finire nel dimenticatoio con l’appellativo generico di “dinosauro di Damparis”.Oggi, questi resti, vengono ri-descritti e identificati come appartenenti ad una nuova specie di dinosauro sauropode, Vouivria damparisensis, ridefinendo quello che sapevamo sull’origine del gruppo di dinosauri più grandi mai apparsi sulla Terra, i titanosauriformi. Lo studio è stato condotto da un team di ricercatori dell’Imperial College di Londra, del Museo di Storia Naturale di Parigi e del CNRS/Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne, grazie a un finanziamento del programma Synthesys dell’Unione Europea. I brachiosauridi come Vouivria sono conosciuti da tutti per via del famigerato dinosauro Brachiosaurus, il gigante dal collo lungo reso immortale nell’immaginario collettivo da una delle più iconiche scene del film Jurassic Park. Secondo i ricercatori, l’età di Vouivria risale a 160 milioni di anni fa, facendone il più antico titanosauriforme conosciuto. Quando i resti di questo animale furono scoperti in Francia negli anni ‘30, i paleontologi del tempo non gli assegnarono subito una specie, essendo le conoscenze relative a questo gruppo molto limitate. Il Dr Phil Mannion, il primo autore dello studio, del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Imperial College di Londra, ha dichiarato: “Vouivria era un animale che si nutriva di felci e conifere. Queste creature vivevano nel Giurassico Superiore, circa 160 milioni di anni fa, ad un tempo in cui l’Europa era costituita da un insieme di isole. Non sappiamo esattamente la causa principale della morte di questo animale, ma milioni di anni dopo ci sta fornendo importanti informazioni per comprendere la storia evolutiva dei sauropodi brachiosauridi e del grande gruppo a cui essi fanno parte, chiamato Titanosauriformes”. Questi rettili giganti vissero in un periodo compreso fra il Giurassico Superiore (160 milioni di anni fa) e l’estinzione di massa di fine Cretacico (66 milioni di anni fa), quando il famoso asteroide spazzò via gran parte della vita sul pianeta. Essendo i resti di questi animali abbastanza rari, gli scienziati non hanno avuto vita facile nel comprendere l’evoluzione dei titanosauriformi e come essi si diffusero sul pianeta. La (ri-)scoperta di Vouivria damparisensis aiuterà gli esperti a studiare la diffusione di questi dinosauri durante il Cretacico Inferiore, un periodo di tempo successivo al Giurassico, compreso fra 145 e 100 milioni di anni fa circa. Oltre a definire la nuova specie, gli studiosi hanno condotto una nuova analisi delle relazioni evolutive dei sauropodi, che mostra come dal Cretacico Inferiore, i brachiosauridi erano confinati in quell’area che adesso corrisponde grosso modo all’Africa e agli Stati Uniti, essendosi probabilmente allora già estinti in Europa. In passato, gli scienziati ipotizzavano che alcuni brachiosauridi raggiunsero il Sud America durante il Cretacico. La nuova analisi suggerisce invece che i membri sudamericani di questo gruppo (come il colombiano Padillasaurus), non appartenevano ai brachiosauridi, ridefinendo la distribuzione spaziale di questo gruppo di giganti preistorici. Lo studio comprende anche un’analisi più approfondita dell’ambiente in cui Vouivria morì, elemento inizialmente frainteso dagli scopritori originali. I ricercatori credono che Vouivria morì in una laguna costiera, durante un breve abbassamento del livello del mare in Europa, prima che venisse sepolto dai sedimenti di spiaggia al seguente rialzamento del livello del mare. Quando inizialmente il fossile fu scoperto in rocce provenienti da un ambiente costiero, i ricercatori suggerirono che la carcassa fosse stata portata via dalle onde e trasportata in mare. Quest’esemplare era probabilmente un giovane, pesante 15 tonnellate e lungo 15 metri, quasi come un tipico bus a due piani inglese, anche se le cause della sua morte ci sono ancora ignote. Il nome del nuovo dinosauro, Vouivria ha anche un’origine legata alla mitologia francese. Esso deriva infatti dalla parola del francese arcaico “vouivre”, a sua volta derivante dal latino “vipera”. Nelle leggende della Franca Contea, la regione da cui proviene il fossile, “la vouivre” è un antico rettile alato simile a un drago. Il nome specifico, invece, si riferisce al villaggio di Damparis, da cui lo scheletro proviene. I titanosauriformi del tardo Cretacico sono poco conosciuti a differenza dei propri simili giurassici. Il prossimo passo sarà quindi quello di espandere l’analisi delle relazioni evolutive a tutte le specie di titanosauriformi mai scoperte. Il gruppo di ricerca sta inoltre cercando prove dell’esistenza di questi animali in rocce più antiche, per determinare con maggiore precisione dove e quando questi dinosauri apparvero e si diffusero nei vari continenti.

    Link allo studio originale: Mannion PD, Allain R, Moine O. (2017) The earliest known titanosauriform sauropod dinosaur and the evolution of Brachiosauridae. PeerJ 5:e3217 https://doi.org/10.7717/peerj.3217

    Fonte della notizia: Imperial College London/Peerj: http://www3.imperial.ac.uk/newsandeventspggrp/imperialcollege/newssummary/news_27-4-2017-13-43-8