• Piccole grandi scoperte

    Se si pensa alle grandi scoperte paleontologiche, spesso si immaginano anche fossili enormi, scheletri completi e spettacolari di animali mitici che hanno accompagnato la nostra infanzia. Ma non sempre è così, per fortuna.

    Ricostruzione 3D ©Matt Humpage.

    Lo studio pubblicato oggi sulla prestigiosa rivista Nature, e condotto dal Dottor Davide Foffa, Research Associate presso i National Museums Scotland, ci parla di un minuscolo rettile fossile del Triassico che fu scoperto per la prima volta oltre 100 anni fa nel nord-est della Scozia, e che, sottoposto oggi a nuove tecniche di indagine, si è rivelato essere un parente stretto delle specie che sarebbero diventate pterosauri, iconici rettili volanti dell’era dei dinosauri.
    Nell’ articolo appena pubblicato, il team di scienziati ha utilizzato la tomografia computerizzata (TC) per fornire la prima accurata ricostruzione di Scleromochlus taylori. I risultati rivelano nuovi dettagli anatomici che lo identificano definitivamente come un parente stretto degli pterosauri.
    Vissuti circa 240-210 milioni di anni fa, i lagerpetidi (gruppo di cui Scleromochlus fa parte) erano un gruppo di rettili relativamente piccoli, generalmente delle dimensioni di un gatto o di un cane di piccola taglia, ma Scleromochlus era più piccolo ancora, addirittura non superava i 20 centimetri di lunghezza!
    I risultati condotti su questo piccolissimo esemplare, supportano l’ipotesi che i primi rettili volanti si siano evoluti da antenati probabilmente bipedi e di dimensioni ridotte.
    La scoperta risolve un dibattito lungo un secolo. In precedenza, infatti, c’era stato disaccordo sul fatto che il rettile, Scleromochlus, rappresentasse un passo evolutivo nella direzione di pterosauri, dinosauri o qualche altra propaggine rettiliana. Tutto questo era dovuto al fatto che il reperto fossile ha un cattivo stato di conservazione all’interno del proprio blocco di arenaria, il che ha reso difficile studiarlo in maniera dettagliata prima di questo momento e di identificarne correttamente le caratteristiche anatomiche. Il fossile fa parte di un gruppo noto come i rettili di Elgin, che comprende esemplari del Triassico e del Permiano trovati nell’arenaria della regione del Morayshire, nel nord-est della Scozia, intorno alla città di Elgin.
    Il dottor Davide Foffa, Research Associate presso i National Museums Scotland e autore principale dell’articolo, ha affermato: “È emozionante poter risolvere un dibattito che va avanti da oltre un secolo, ma è molto più sorprendente poter vedere e capire un animale che visse 230 milioni di anni fa e il suo rapporto con i primi vertebrati volanti. Questa è un’altra scoperta che mette in evidenza il ruolo importante della Scozia nella documentazione fossile globale, e anche l’importanza delle collezioni museali che conservano tali esemplari, consentendoci di utilizzare nuove tecniche e tecnologie per continuare ad imparare da loro anche molto tempo dopo la loro scoperta”.
    Il Professor Paul Barrett, del Museo di Storia Naturale di Londra ha aggiunto: “I rettili di Elgin non sono conservati come gli scheletri incontaminati e completi che vediamo spesso nelle mostre dei musei. Sono principalmente rappresentati da calchi naturali delle loro ossa in arenaria e – fino a tempi abbastanza recenti – l’unico modo per studiarli era usare cera o lattice per riempire questi stampi e realizzare calchi delle ossa che un tempo li occupavano.Tuttavia, l’uso della TAC ha rivoluzionato lo studio di questi difficili esemplari e ci ha permesso di produrre ricostruzioni molto più dettagliate, accurate e utili di questi animali dal nostro profondo passato”. Infine, il professor Sterling Nesbitt (Virgina Tech) del team di ricerca ha dichiarato: “Gli pterosauri sono stati i primi vertebrati ad evolvere il volo e per quasi due secoli non abbiamo conosciuto i loro parenti più stretti. Ora possiamo iniziare a riempire la loro storia evolutiva con la scoperta di minuscoli parenti stretti che migliorano le nostre conoscenze su come vivevano e da dove venivano”.

    (Scleromochlus t. Artwork credit: Gabriel Ugueto)

    Oltre ai National Museums Scotland, al Natural History Museum e al Virginia Tech, lo studio ha coinvolto anche le università di Birmingham, Bristol ed Edimburgo, nonché l’Accademia Cinese delle Scienze.
    La Scozia ha rivendicato un’altra pietra miliare speciale nella storia degli pterosauri all’inizio di quest’anno con la presentazione di Dearc Sgithanach, un fossile insolitamente completo e ben conservato scoperto sull’isola di Skye e il più grande pterosauro conosciuto nel periodo giurassico.

    Premio Italiano di Paleoarte

    II Edizione

    L’Accademia Valdarnese del Poggio e il Museo Paleontologico di Montevarchi organizzano e promuovono il Premio Italiano di Paleoarte, ideato da Sante Mazzei, graphic designer e illustratore specializzato in illustrazione scientifica.

    Cos’è il Premio Italiano di Paleoarte

    Il Premio Italiano di Paleoarte è una competizione artistica il cui scopo è diffondere la conoscenza della Paleoarte, quale rappresentazione della vita preistorica con varie tecniche artistiche, offrendo anche una vetrina ai paleoartisti professionisti e aspiranti tali.

    Le opere inviate faranno parte di una mostra artistica che sarà inaugurata alla quinta edizione del “Paleofest. Il Festival della Preistoria”, organizzato dal Museo Paleontologico dell’Accademia Valdarnese del Poggio, che si svolgerà l’1 e 2 Ottobre 2022.

    Scadenza

    La competizione, con il conseguente invio delle opere da parte degli artisti, avrà inizio lunedì 2 Maggio 2022 e terminerà mercoledì 31 Agosto 2022.

    Tutti i lavori saranno valutati da una giuria composta da persone influenti della scena paleontologica italiana e internazionale.

    Esito e Premi

    Sono previsti un primo, secondo, terzo posto con relativo premio in denaro. È previsto un premio speciale per l’opera che otterrà più “mi piace” sulla pagina Facebook del Museo Paleontologico e che sarà annunciato dopo il Paleofest.

    In occasione del “Paleofest. Il Festival della Preistoria” saranno comunicati i nomi dei vincitori e verrà organizzata una premiazione ufficiale.
    Tutte le informazioni e i moduli necessari per partecipare al concorso sono scaricabili qui!

    Gli “heavy skeletons” dei cacciatori acquatici

    Si discute ancora molto sul fatto che Spinosaurus, con il suo straordinario adattamento acquatico, fosse un caso eccezionale tra i dinosauri mesozoici, dovuto anche ad un insieme di caratteristiche quali un muso allungato, piccole zampe posteriori con piedi palmati e una coda “pinnata” simile a quella degli attuali tritoni. Ma probabilmente non era tutto qui e forse non era l’unico dinosauro a sapersi muovere con grande agilità in acqua.

    Ossa dense e più compatte che in ogni altro dinosauro permettevano agli spinosauri di immergersi nei fiumi per cacciare sott’acqua le loro prede. © Illustrazione di Davide Bonadonna per l’articolo “Subaqueous foraging among carnivorous dinosaurs”, pubblicato oggi su Nature.

    Un team internazionale di paleontologi, tra cui spiccano gli italiani Matteo Fabbri (Field Museum di Chicago e primo autore dello studio), Cristiano Dal Sasso (Museo di Storia Naturale di Milano), Simone Maganuco e Marco Auditore (collaboratori del Museo di Milano) e Gabriele Bindellini (Università degli Studi di Milano), ha scoperto – e pubblica oggi su Nature – che le ossa degli spinosauridi erano tra le più dense e compatte di tutto il regno animale. Una zavorra naturale, che consentiva facili immersioni e dunque indica che questi dinosauri senza alcun dubbio, ben diversamente dagli altri, avevano uno stile di vita prevalentemente acquatico.
    Lo Spinosaurus è il più grande dinosauro carnivoro mai scoperto, anche più grande del T. rex, ma il modo in cui cacciava è stato oggetto di dibattito per decenni. È difficile indovinare il comportamento di un animale che conosciamo soltanto dai fossili; sulla base del suo scheletro, alcuni scienziati hanno proposto che Spinosaurus potesse nuotare, ma altri credono che si limitasse a cacciare in acque poco profonde come un airone. Dal momento che osservare l’anatomia degli spinosauridi non è stato sufficiente a risolvere il mistero e chiudere il dibattito, un gruppo di paleontologi ha pubblicato un nuovo studio sulla rivista scientifica Nature in cui viene presentato un nuovo approccio di studio: esaminare la densità delle loro ossa.
    Analizzando la densità delle ossa degli spinosauridi e confrontandole con altri animali come pinguini, ippopotami e alligatori, il team di ricerca ha scoperto che Spinosaurus e il suo parente stretto Baryonyx avevano ossa dense che probabilmente avrebbero permesso loro di immergersi sott’acqua per cacciare. Al contempo, un altro dinosauro appartenente sempre alla famiglia degli spinosauridi, Suchomimus, aveva invece ossa più leggere che avrebbero reso più difficile il nuoto, quindi probabilmente trascorreva più tempo a terra come altri dinosauri e pescava in acque poco profonde.
    “La documentazione sui fossili è complicata: tra gli spinosauridi, ci sono solo una manciata di scheletri parziali e non abbiamo scheletri completi per questi dinosauri. Altri studi si sono concentrati sull’interpretazione dell’anatomia, ma chiaramente interpretazioni così opposte riguardo le stesse ossa, sono un chiaro segnale che forse le sole caratteristiche anatomiche non rappresentano il metro più efficace per dedurre l’ecologia degli animali estinti” – dice Matteo Fabbri.

    Come tutti sappiamo, la vita ha avuto origine dall’acqua e la maggior parte dei gruppi di vertebrati terrestri contiene membri che vi sono tornati, ad esempio, mentre la maggior parte dei mammiferi vivono sulla terra ferma, ci sono balene e foche che vivono nell’oceano e altri mammiferi come lontre, tapiri e ippopotami che hanno un’ecologia semi-acquatica. Gli uccelli hanno pinguini e cormorani; i rettili hanno alligatori, coccodrilli, iguane marine e serpenti marini. Per molto tempo, i dinosauri non aviari sono stati l’unico gruppo non acquatico e anche se alcuni dinosauri presentano delle caratteristiche anatomiche tali per cui una vita acquatica era evidente, i paleontologi hanno continuato a dibattere se gli spinosauridi nuotassero effettivamente per il loro cibo o se si limitassero a rimanere nelle acque basse e ad immergere la testa per catturare le prede. Questo continuo dibattito ha portato il team di ricerca a trovare un altro modo per risolvere il problema.

    “L’idea per il nostro studio era, ok, chiaramente possiamo interpretare i dati sui fossili in modi diversi. Ma che dire delle leggi fisiche generali? Ci sono alcune leggi che sono applicabili a qualsiasi organismo su questo pianeta. Una di queste leggi riguarda la densità e la capacità di immergersi nell’acqua. In tutto il regno animale, la densità ossea è un indizio per capire se quell’animale è in grado di affondare sotto la superficie e nuotare. Abbiamo pensato, va bene, forse questo è il proxy che possiamo usare per determinare se gli spinosauridi fossero effettivamente acquatici”, dice Fabbri.

    Allargando il confronto a uccelli volatori, dinosauri tipicamente terrestri e rettili marini, gli animali che hanno le ossa più dense e compatte sono sempre quelli legati alla vita in acqua. Questa correlazione è evidente soprattutto nei femori, ma anche nelle costole e nel resto dello scheletro, rivela oggi Nature. © Matteo Fabbri per Nature.

    I ricercatori hanno messo insieme un set di dati di sezioni trasversali di femore e costole di 250 specie di animali estinti e viventi, sia marini che terrestri. Hanno poi confrontato queste sezioni trasversali con quelle di Spinosaurus e dei suoi parenti Baryonyx e Suchomimus. Lo studio è stato suddiviso in due fasi: prima capire se c’è effettivamente correlazione universale tra densità ossea ed ecologia e successivamente dedurre gli adattamenti ecologici nei taxa estinti. In sostanza, il team ha dovuto applicare questo metodo su animali che sono ancora vivi e che sappiamo per certo essere acquatici o meno, e poi applicarlo allo stesso modo su animali estinti che non possiamo osservare nel loro ambienti. Per fare ciò è stato volutamente scelto un campione con un’altissima varietà di caratteristiche, sono stati inclusi animali come foche, balene, elefanti, topi, colibrì, dinosauri di diverse dimensioni, rettili marini estinti come mosasauri e plesiosauri, animali che pesano diverse tonnellate e animali che pesano solo pochi grammi.
    Tutta questa varietà ha rivelato un chiaro legame tra densità ossea e comportamento acquatico nella ricerca del cibo: gli animali che si immergono sott’acqua per trovare da mangiare hanno ossa quasi completamente solide ovunque, mentre le sezioni trasversali delle ossa degli abitanti di terraferma assomigliano più a ciambelle, con cavità al centro. “C’è una correlazione molto forte e il miglior modello esplicativo che abbiamo trovato è stato nella correlazione tra la densità ossea e gli animali che si immergono nell’acqua per procacciarsi il cibo. Ciò significa che tutti i “cacciatori acquatici” hanno queste ossa dense, e questa è stata la grande notizia di questa ricerca”, ​​afferma Fabbri.

    Confrontando i femori sezionati di uccelli e dinosauri carnivori si vede chiaramente che la cavità interna è più ridotta nelle specie adattate a uno stile di vita semiacquatico (dall’alto: kiwi, tirannosauro, sucomimo, pinguino, spinosauro). © Davide Bonadonna, Prehistoric Minds.

    Quando i ricercatori hanno applicato questo paradigma alle ossa degli spinosauridi, hanno scoperto che Spinosaurus e Baryonyx avevano entrambi ossa dense associate alla piena immersione. Allo stesso tempo invece, il loro parente Suchomimus aveva ossa più cave. Viveva ancora in prossimità dell’acqua e mangiava pesce, come dimostrano il muso simile a un coccodrillo e i denti conici, ma in base alla sua densità ossea, in realtà non era un nuotatore. “L’aver trovato ossa compatte anche in Baryonyx, che a differenza di Spinosaurus non aveva ancora evoluto particolari caratteristiche fisiche per il nuoto, è stata la prova che l’acquisizione di uno scheletro più denso ha rappresentato il primo passo per la conquista dell’acqua, anche nei dinosauri”, dice Simone Maganuco.

    Tra gli spinosauridi, in base alla densità delle ossa il genere Spinosaurus risulta quello più adatto ad immergersi in acqua, ma Baryonyx sembra già ben predisposto, nonostante abbia uno scheletro ancora poco modificato per il nuoto. © Marco Auditore per Nature.

    Anche altri dinosauri, come i giganteschi sauropodi dal collo lungo, avevano ossa dense, ma i ricercatori non pensano che ciò significasse che erano dei nuotatori. “Animali molto pesanti come elefanti e rinoceronti, e come i dinosauri sauropodi, hanno ossa degli arti molto dense, perché c’è molto stress sugli arti. Detto questo, le altre ossa sono piuttosto leggere. Ecco perché era importante per noi esaminare una varietà di ossa di ciascuno degli animali nello studio”. E sebbene ci siano dei limiti a questo tipo di analisi, i ricercatori sono entusiasti della possibilità che questo studio parli di come vivevano i dinosauri. “Una delle grandi sorprese di questo studio è stata quanto fosse raro il foraggiamento subacqueo per i dinosauri e che anche tra gli spinosauridi il loro comportamento fosse molto più vario di quanto pensassimo“, afferma Fabbri. “I dati indicano che gli adattamenti alla vita anfibia comparvero negli spinosauridi all’inizio del Cretaceo, tra 145 e 100 milioni di anni fa, differenziandoli dai grandi dinosauri carnivori terrestri già nel Giurassico”, conclude Gabriele Bindellini.

    Doveva essere anche un discreto sub, dicono ora le sue ossa molto dense… © Davide Bonadonna per l’articolo “Subaqueous foraging among carnivorous dinosaurs”, pubblicato oggi su Nature.

    Infine, lo studio mostra quante informazioni possono essere raccolte da campioni incompleti: “La buona notizia con questo studio è che ora possiamo superare il concetto per cui è necessario conoscere il più possibile sull’anatomia di un dinosauro per conoscere la sua ecologia, perché dimostriamo che ci sono altri proxy affidabili da poter usare. Se troviamo una nuova specie di dinosauro e abbiamo solo poche ossa, è possibile creare un set di dati per calcolare la densità ossea e dedurre almeno se fosse acquatico o meno”.
    Lo studio, che si è svolto nei laboratori e nelle collezioni dei musei naturalistici di mezzo mondo, coinvolgendo un team di ricerca internazionale è stato oggi pubblicato sulla rivista Nature.
    Qui il link Link per l’articolo.: https://www.nature.com/articles/s41586-022-04528-0

    5° Ciclo di Conferenze – L’Impero dei Dinosauri

    Quinto ciclo di incontri e conferenze organizzati in occasione della mostra “L’Impero dei Dinosauri”, in collaborazione con Sapienza Università di Roma – presso il Museo dell’Orto Botanico di Roma


    Sabato 12 marzo h 16,00: Jacopo Conti (Paleontologo) – Aranciera dell’Orto Botanico di Roma 
    Gli orsi pleistocenici della Penisola Italiana


    Sabato 19 marzo h 15,00: Diego Matterelli ed Emanuela Pagliari  (Divulgatori scientifici) – Aranciera dell’Orto Botanico di Roma – 
    Il Triceratopo Rosa
    Presentazione del libro


    Sabato 26 marzo h 16,00: Federico Fanti (Paleontologo – Alma Mater Studiorum Bologna) – Aranciera dell’Orto Botanico di Roma –
     Il cacciatore di Dinosauri
    Presentazione del libro

    4° Ciclo di Conferenze – L’Impero dei Dinosauri

    Quarto ciclo di incontri e conferenze organizzati in occasione della mostra “L’Impero dei Dinosauri”, in collaborazione con Sapienza Università di Roma – presso il Museo dell’Orto Botanico di Roma

    Sabato 19 febbraio h 16,00: Donatella Magri (Botanica)- Aranciera dell’Orto Botanico di Roma 
    Piante e Paesaggi Scomparsi

    Venerdì 25 febbraio h 16,30: Simone Maganuco  (Paleontologo) – Aula Lucchesi Dip. Scienze della Terra – Sapienza Università di Roma –
    Ripensare Spinosaurus

    Sabato 26 febbraio h 16,00: Fabio Attorre (Botanico – Direttore Orto Botanico) – Aranciera dell’Orto Botanico di Roma –
     L’Orto Botanico di Roma tra Passato e Futuro

    3° Ciclo di Conferenze – L’Impero dei Dinosauri

    Terzo ciclo di incontri e conferenze organizzati in occasione della mostra “L’Impero dei Dinosauri”, in collaborazione con Sapienza Università di Roma – presso il Museo dell’Orto Botanico di Roma

    Martedì 11 gennaio 2022 h 16,30

    Aula Lucchesi – Dip. di Scienze della Terra – Sapienza Università di Roma
    Evoluzione di adatamenti acquatici tra i dinosauri predatori cretacici

    con Matteo Fabbri – Paleontologo

    Martedì 18 gennaio 2022 h 16,30
    Aula Lucchesi – Dip. di Scienze della Terra – Sapienza Università di Roma
    Il Lazio negli ultimi 3 milioni di anni
    con Luca Bellucci – Paleontologo

    Sabato 22 gennaio2022 h 15,30
    Arancera dell’Orto Botanico di Roma
    Piante e paesaggi scomparsi
    con Donatella Magri – Botanica

    Sabato 29 gennaio 2022 h 15,30
    Arancera dell’Orto Botanico di Roma
    Sulle orme dei dinosauri: le tracce che i grandi rettili del Mesozoico hanno lasciato nl nostro Paese
    con Fabio Petti – Geologo

    E’ possibile partecipare agli incontri in modalità mista. Tutti gli eventi si svolgeranno in diretta sulla pagina dell’Associazione APPI.
    Per la partecipazione in presenza presso le sedi universitarie cliccare qui
    Per accedere agli spazi dell’Orto Botanico si ricorda che è necessario essere in possesso di Green Pass a partire dai 12 anni di età.

    “Guarda, si muovono in branchi!”

    Il primo branco di dinosauri italiano

    Sono almeno sette esemplari di Tethyshadros insularis, tra cui “Bruno”, il più grande e completo dinosauro mai rinvenuto in Italia. Hanno 80 milioni di anni, erano più grandi di quanto pensato finora e vivevano in un ecosistema unico sulle sponde di un antico oceano.

    C’è un branco di dinosauri in Italia. Numerosi scheletri in perfetto stato di conservazione sono stati ritrovati nel sito di Villaggio del Pescatore, comune di Duino-Aurisina, a pochi chilometri da Trieste. La scoperta è stata riportata da un gruppo internazionale di ricerca coordinato da studiosi dell’Università di Bologna in un articolo pubblicato su Scientific Reports, rivista del gruppo Nature.

    Gli straordinari scheletri venuti alla luce appartengono alla specie Tethyshadros insularis: si tratta di almeno sette esemplari (ma probabilmente sono undici), tra cui in particolare un nuovo dinosauro, soprannominato “Bruno”, che rappresenta il più grande dinosauro mai rinvenuto in Italia.
    Nello stesso sito sono stati inoltre ritrovati pesci, coccodrilli, rettili marini e persino piccoli crostacei: tutti elementi che hanno permesso di ricostruire una vivida immagine di questo antico ecosistema senza eguali al mondo. I reperti rinvenuti al Villaggio del Pescatore possono essere oggi ammirati al Museo Civico di Storia Naturale di Trieste, concessi in deposito da parte del Ministero della Cultura.
    “Per la prima volta abbiamo in Italia un giacimento di dinosauri, in cui non solo troviamo i resti di questi animali, che sembrano appartenere a mondi lontani da noi, ma ne troviamo tanti, insieme agli animali che con loro condividevano quel mondo perduto”, dice Federico Fanti, professore al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna, che ha coordinato lo studio. “Questo sito eccezionale è un luogo dove dal terreno possiamo, e lo stiamo facendo, estrarre tanti scheletri di dinosauri, uno più spettacolare dell’altro; e questa è la prima volta in cui sappiamo esattamente dove continuare a scavarli”.

    DINOSAURI NEL MEDITERRANEO
    Prima di oggi solo un altro esemplare era venuto alla luce nel sito del Villaggio del Pescatore, nei primi anni ’90: un piccolo dinosauro, soprannominato “Antonio”, le cui dimensioni ridotte avevano fatto ipotizzare che Tethyshadros insularis potesse essere una specie “nana”. Ora, la scoperta di Bruno – più grande e con proporzioni più massicce – dimostra che Antonio fosse semplicemente un individuo giovane. Anzi, le strutture ossee analizzate al microscopio dai ricercatori mostrano che Bruno potesse ancora crescere al momento della morte.
    Oltre a tutto questo, nuovi dati geologici emersi dall’analisi del sito hanno portato a ridefinire l’età di questi dinosauri, che risalirebbero a 80 milioni di anni fa: 10 milioni di anni più antichi di quanto si era ipotizzato inizialmente.
    “Questi nuovi scheletri ci permettono di capire meglio la storia evolutiva di un gruppo di dinosauri chiamati hadrosauriformii dinosauri a becco d’anatra a cui appartengono Bruno e Antonio”, spiega Alfio Alessandro Chiarenza, dell’Università di Vigo(Spagna), primo autore dello studio. “Siamo riusciti a ricostruire come questi dinosauri siano arrivati fino nel cuore dell’attuale Mediterraneo durante il periodo Cretaceo, circa 80 milioni di anni fa: se un tempo di pensava ad un mondo fatto solo di piccole isole tropicali, poco ospitali per i grandi dinosauri, nuovi dati dimostrano come ampie terre emerse connesse con Asia ed Europa occidentale permettessero ad animali come quelli del Villaggio del Pescatore di sopravvivere e, cosa ancora più importante, di fossilizzarsi giungendo intatti fino ai giorni nostri”.

    DA “ANTONIO” A “BRUNO”Al tempo dei dinosauri, fra 230 e 66 milioni di anni fa, l’area occupata oggi dal Mar Mediterraneo sarebbe stata difficile da tracciare in una mappa: un insieme di piccole isole lontane dalle grandi masse continentali europee, africane e asiatiche, e di conseguenza un luogo davvero poco adatto ad ospitare grandi branchi di questi animali. Non a caso, per lungo tempo i geologi hanno considerato l’area che oggi è il Villaggio del Pescatore come un’isola situata nel mezzo di un antico oceano chiamato Tetide.
    Il sito di Villaggio del Pescatore salì per la prima volta alla ribalta alla fine degli anni ’80, quando due appassionati di geologia, i signori Alceo Tarlao e Giorgio Rimoli, si imbatterono in qualcosa di inaspettato: resti fossilizzati di ossa. Qualche anno più tardi poi, nel 1994, una studentessa di geologia, Tiziana Brazzatti, durante un sopralluogo nella cava, scoprì quello che sarà successivamente identificato come il primo scheletro completo del sito.
    Le indagini che seguirono la scoperta svelarono in fretta di chi fossero queste ossa, ma la caccia al dinosauro si rivelò particolarmente complicata, con lame diamantate, ruspe e bulldozer per estrarre gli enormi blocchi di dura roccia calcarea che preservavano i resti. E i problemi continuarono anche in seguito: per svelare i reperti fossilizzati, le grandi rocce dovettero infatti affrontare lunghi bagni nell’acido. È solo a questo punto che affiorò Antonio: un dinosauro a becco d’anatra, lungo quasi cinque metri, perfettamente preservato. Il primo esemplare di Tethyshadros insularis.
    UN DINOSAURO ADULTOLa datazione del reperto inizialmente fissata a 70 milioni di anni fa, le dimensioni relativamente ridotte del dinosauro e il fatto che il Villaggio del Pescatore in quell’epoca lontana fosse un’isola in mezzo all’oceano, fece ipotizzare che Antonio appartenesse a una specie “nana”, adattata per sopravvivere alle scarse risorse ambientali delle piccole isole. La scoperta ora di altri esemplari, e in particolare di Bruno – più grande e con proporzioni più massicce di Antonio – ha portato però gli studiosi a rivedere questa ipotesi.
    “Bruno appartiene alla stessa specie di Antonio, anche se è più grande e massiccio: il motivo è semplice, non hanno la stessa età”, spiega Fanti. “Bruno è più grande, adulto, di Antonio, e proprio come in qualsiasi specie che conosciamo oggi ha un aspetto diverso proprio a causa della sua età: insieme, questi due animali, ci mostrano un aspetto molto raro da vedere nei dinosauri, ovvero come cambiavano mano a mano che crescevano”.
    Dalla nuova datazione, che fa risalire i dinosauri ritrovati a 80 milioni di anni fa, inoltre si può infatti dedurre che a quell’epoca l’area del Villaggio del Pescatore non fosse un’isola, ma una terra che si affacciava sull’oceano della Tetide ed era connessa con l’Europa occidentale e con l’Asia: ampie zone emerse che rappresentavano vie migratorie per i grandi animali terrestri come i dinosauri.
    “Il sito del Villaggio del Pescatore rappresenta un’occasione unica per far conoscere i dinosauri agli italiani, per far capire come la paleontologia e la geologia facciano parte del nostro patrimonio culturale”, dice Fanti in conclusione. “Rappresenta allo stesso tempo un traguardo e un punto di partenza per capire la storia dei dinosauri e di tutta l’area mediterranea di milioni di anni fa”.


    I PROTAGONISTI DELLO STUDIO
    Lo studio è stato pubblicato sull rivista Scientific Reports con il titolo “An Italian dinosaur Lagerstätte reveals the tempo and mode of hadrosauriform body size evolution”. Per l’Università di Bologna hanno partecipato Federico Fanti Marco Muscioni del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali. Hanno partecipato inoltre studiosi dell’Università di Vigo(Spagna), del Field Museum of Natural History di Chicago (Stati Uniti), dell’Università di Trieste, dell’Università di Toronto (Canada) e dell’Università di Alcalá (Spagna).

    L’Impero dei Dinosauri

    L’Impero dei Dinosauri è il nuovo progetto divulgativo dell’Associazione Paleontologica A.P.P.I. in collaborazione con il Museo Orto Botanico di Roma – Dipartimento di Biologia Ambientale (Sapienza Università di Roma).

    Si tratta di una mostra dal carattere fortemente divulgativo che fa del connubio tra Scienza e Arte il suo fiore all’occhiello. A partire da sabato 30 ottobre infatti, lo storico Museo dell’Orto Botanico si tramuterà in un vero e proprio giardino preistorico: palme, piante acquatiche, bambù e felci torneranno ad essere abitate dagli antichi dominatori. Il Museo dell’Orto Botanico, che ospita oltre 3000 specie vegetali, ha funzioni didattiche di educazione ambientale e di ricerca scientifica, ed è sede di ricerche altamente specializzate sull’ecologia dell’ambiente urbano.

    Creata da un team interamente italiano con la consulenza di paleontologi professionisti in tutte le fasi di realizzazione, la mostra, attraverso l’impatto emozionale di un allestimento spettacolare, trasmette contnuti aggiornati ai continui progressi della ricerca nel settore. La formula di cultura-intrattenimento adottata vuole coinvolgere il pubblico e avvicinarlo all’ambiente degli addetti ai lavori, sottolineando il contributo degli scienziati e degli artisti all’affascinante lavoro di ricostruzione della Storia della Vita partendo dallo studio delle testimonianze fossili.

    2 Ciclo Conferenze : L’Impero dei Dinosauri

    Sabato 4 dicembre 2021 h 15,00

    Arancera dell’Orto Botanico di Roma

    Giorgio Manzi (antropologo)

    L’Ultimo Neanderthal racconta

    Presentazione del libro

    Sabato 11 dicembre 2021 h 15,00

    Arancera dell’Orto Botanico di Roma

    Luca Bellucci (paleontologo)

    Paleoambienti pre e post Homo: storie pleistoceniche dall’Italia

    Sabato 18 dicembre 2021 h 15,00

    Arancera dell’Orto Botanico di Roma

    Michele Macrì (gemmologo) presenta:

    I miei primi 40 carati

    Presentazione del libro

    1 Ciclo di conferenze: L’Impero dei Dinosauri

    Primo Ciclo di Incontri e Conferenze

    Sabato 13 novembre h 15,00 presso l’Arancera dell’Orto Botanico di Roma
    Simone Maganuco (Paleontologo)
    SCIENZA E ARTE:COME RIPORTARE IN VITA I DOMINATORI DEL MONDO PERDUTO

    Mercoledì 24 novembre h 16,30 presso il Dip. di Scienze della Terra – Sapienza Università di Roma
    Marco Romano (Paleontologo) presenterà il libro
    I FOSSILI – UNA STORIA ITALIANA

    Tutti gli incontri sono organizzati da APPI – Associazione Paleontologica Paleoartistica Italiana , Sapienza Università di Roma, Musei Sapienza, MuST – Museo di Scienze della Terra e società Geologica Italiana